CELLINO RIAPRE CALCIOPOLI RIVELAZIONI SHOCK
Le parole di Cellino a Report, i faldoni bruciati e la Finanza in ritardo
Cosa avvenne in quel periodo? Dopo le dimissioni e il commissariamento della Federcalcio con l’arrivo di Guido Rossi anche la Lega cambia i suoi vertici: Adriano Galliani, l’allora numero uno, lascia il posto a Cellino proprio nel periodo successivo all’addio di Moggi, Bettega e Giraudo. E sono proprio riferite a quei momenti le sue incredibili parole a Report: “Cercavo di tenere la baracca in piedi perché stava crollando tutto. Io, che ero uno dei più giovani Presidenti a governare e organizzare la Lega, a pulire tutte le schifezze che c’erano là dentro. Non sapevo da quale parte cominciare. Eravamo sempre lì a cercare di organizzare il campionato. C’era un contenitore di metallo grosso con tutti cassetti e tutti i dossier su tutte le società: chi si era iscritto al campionato con fideiussione falsa, chi si scaricava l’IRPEF come trasporto. Andammo nel piazzale giù, c’era un bidone di ferro così, buttammo tutto dentro e bruciammo tutto. L’indomani quando vennero, cercarono quel faldone, non c’era un ca**o“.
Calciopoli, la frase dell’ex capo pm Lepore a Report
Assume grande rilievo anche un passaggio di qualche secondo in cui l’ex capo pm Giandomenico Lepore afferma che “c’erano anche altre squadre, quasi tutte le squadre. Diciamo le cose come sono”. Lepore è il super-magistrato che ha stroncato il clan dei Casalesi e che, prima di andare in pensione nel 2011, ha condotto altre inchieste di primo piano oltre a Calciopoli, come quella sull’emergenza rifiuti a Napoli. E sono anni che rilascia dichiarazioni simili a quelle riportate da Report.
Nel 2011, a Tuttosport, Lepore aveva raccontato: “Se mi sono chiesto perché non risultasse alcuna intercettazione relativa all’Inter? Sapevo che la Juve era sotto inchiesta, ma anche che qualcuno voleva tirare in ballo altre squadre. Ad esempio, quando chiedevo lumi sull’Inter, perché sentivo lamentele sull’inesistenza di intercettazioni relative a questa squadra, i miei colleghi mi rispondevano sempre che non c’erano elementi a sostegno di quelle voci. Gli elementi a disposizione dell’inchiesta erano quelli e basta, mentre gli altri avevano poca consistenza dal punto di vista penale. Certo, se avessimo potuto portare avanti le indagini così come stavamo facendo…In che senso? Ad un certo punto c’è stata una fuga di notizie, con tutte le intercettazioni pubblicate sull’allegato di un settimanale: in quel preciso istante la nostra inchiesta fu bruciata. Se si è trattata di una fuga di notizie favorita dagli uomini del mio pool? Assolutamente no. Venne da persone estranee che avevano, però, interesse a bloccare le indagini. Non potemmo portare avanti altri aspetti di quell’inchiesta, perché dopo quella pubblicazione i telefoni cominciarono a tacere…“.
Le rivelazioni di Massimo Cellino riportano alla mente molte oscure dinamiche dei ruggenti anni durante i quali si srotolava la vicenda di Calciopoli. Nessuno – allora e nemmeno oggi: siamo onesti – immaginava che nella sede della Lega Calcio a Milano si consumassero gli autodafè delle carte compromettenti da parte dei dirigenti subentrati agli indagati. In molti di noi, però, cominciava a serpeggiare il dubbio che qualcosa non fosse chiaro, che aleggiasse un “non detto” e un “non rivelato” che non rendeva giustizia al quadro complessivo del cosiddetto sistema. Era straniante, per esempio, ascoltare Paolo Bergamo e Pierluigi Pairetto (gli allora designatori finiti sotto accusa) ribadire continuamente, nel corso del maxi processo nell’aula dello Stadio Olimpico a Roma, che «Tutti ci telefonavano, chiamavano tutti i dirigenti». Sembrava un goffo tentativo di scaricare le accuse o, al limite, di coinvolgere gli altri club nella logica del “tutti colpevoli nessun colpevole”.
Una sensazione balorda, insomma, nel clima dei quei giorni… E invece le rivelazioni successive avrebbero poi acclarato che avevano ragione gli allora designatori, al punto che lo stesso Procuratore Federale, Stefano Palazzi, che aveva chiesto le condanne per la Juventus e gli altri club formulò le stesse richieste per l’Inter con i reati, però, ormai prescritti. Perché scoprimmo dopo che delle 171mila telefonate intercettate dai carabinieri diretti dal colonnello Attilio Auricchio ne vennero trascritte circa 3mila, segnate con “baffetti” colorati in base all’importanza: verdi quelle poco interessanti, gialle e arancioni interessanti, rosse molto interessanti. Molte che riguardavano Inter, Cagliari e Roma, seppure colorate di giallo e rosso, non vennero appunto considerate.
A questo si univa la fretta, sostenuta dalla necessità di arrivare a sentenze celeri in barba a “giusto processo” e tutela delle difese. Ormai prevale la narrazione, ma nessuno ricorda più che vi furono misteri clamorosi come la scomparsa del video girato a Coverciano che avrebbe (già, avrebbe…) dovuto sostanziare l’accusa sui sorteggi arbitrali truccati. Sparito e sostituito da foto taroccate, al punto che per questo “falso” fu indagato lo stesso magistrato, Narducci, che produsse la “prova regina” con mezzi artefatti. Nessuno ricorda nemmeno che i tre saggi nominati dall’allora commissario Figc Guido Rossi non imposero affatto di assegnare lo scudetto all’Inter.
Anzi, tra le righe, i tre saggi Gerhard Aigner, Massimo Coccia, Roberto Pardolesi consigliavano cautela: “la FIGC ha certamente il potere discrezionale di deliberare la non assegnazione del titolo di campione d’Italia alla squadra divenuta prima in classifica a seguito della penalizzazione della squadra o delle squadre che la precedevano se, alla luce di criteri di ragionevolezza e di etica sportiva (ad es. quando ci si renda conto, ancorché senza prove certe, che le irregolarità sono state di numero e portata tali da falsare l’intero campionato, ovvero che anche squadre non sanzionate hanno tenuto comportamenti poco limpidi), le circostanze relative al caso di specie rendono opportuna tale non assegnazione”. Ecco, “ci si renda conto ancorché senza prove certe”: sapevano i saggi, eccome, che nel calcio prevale la zona grigia.